Se abbiamo vissuto le Notti Magiche tanto lo dobbiamo a lui. Salvatore Schillaci è morto facendosi ricordare come il trascinatore di Italia ‘90. Un terzo posto amaro, eravamo la squadra più bella. Il tumore al colon è stato troppo forte anche per Totò…
Il ricordo sul sito Dire
Santa Rosalia, scusaci. Fatti da parte. A Palermo, nel quartiere Cep, al numero 4 di via Luigi Barba, le gente prese a frequentare il santuario di San Totò. Schillaci illuminava di magia, coi fari negli occhi spalancati, le notti d’estate 1990. Una modesta costruzione di edilizia popolare nel cuore di un rione occupato negli anni Sessanta dagli sfrattati del centro storico di Palermo. I genitori di Totò accoglievano i fedeli, discutevano i titoli dei giornali, si beavano di quel figlio d’un’Italia che non c’è più. Ora nemmeno lui c’è più, sconfitto da un tumore. Al Cep lo piangevano già da un po’: stava male, nessuno crede davvero ai miracoli da quando l’Italia – l’Italia di Totò-gol – quel Mondiale non lo vinse. I lieto fine delle favole, chi li ha visti mai.
Brera lo chiamava Turi. “Turi a dir poco furioso di voglia”. Il 9 giugno 1990 al minuto 74 di Italia-Austria 0-0, si svestì e sostituì Carnevale. Per tre minuti si guardò attorno. Galleggiò, calpestando l’erba appena appena. Trovò un refolo d’ossigeno in area: saltò di testa. E fece gol. Poi “quel misirizzi tutto nervi e scatti” che Brera avrebbe dettato a braccio al giornale prese a guardare in faccia gli italiani in diretta nazionale, indemoniato lui e il suo sguardo. Una cartolina d’euforia. Persino Andreotti, sugli spalti, fece la ola.
Schillaci era il miracolo italiano che s’alzava e camminava, una rivelazione cristiana. La riserva d’un tratto titolare. Il fendente che nessuno s’aspettava. Il contraltare di Baggio. Non Carnevale, non Vialli. Totò dal Cep. Vicini se lo portò appreso come un santino, la nazione ne fece un santo. Di quelli un po’ sgualciti, macchiati, come piacciono a noi.
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