Quando ero piccina facevo finta di avere un cavallo e quando andavo a camminare in montagna o in riva al mare, mi allontanavo immaginando nella mia testa che avrei avuto almeno tre cavalli una volta cresciuta: d’altra parte la Barbie aveva due cavalli e un pony quindi per me era una cosa del tutto naturale.
A dieci anni ho dato il via il mio periodo “artistico” per cui iniziai a disegnare a tutto spiano ed ero convinta che sarei diventata una bravissima disegnatrice.
Quando ero alle medie invece, complice la mamma della mia amica Chiara, che leggeva tutte le edizioni possibili di Vogue, decisi che avrei voluto fare la stilista, sempre per quell’innata propensione a pensare in grande e unendo così il disegno alla moda.
Nel frattempo però iniziò anche Twin Peaks e quindi mi infognai nel fantastico mondo del cinema.
Quindi dai 14 ai 18 anni sostanzialmente l’unica cosa che mi interessava era incanalare tutta questa gran passione per le arti, perché fare la regista mi sembrava una cosa concreta, ma anche disegnare, ma anche avere a che fare coi vestiti, poi però mi piaceva uno che sembrava Jim Morrison e faceva le letture a teatro, quindi ho fatto un anno di Dams a Bologna, poi tramutatosi in storia dell’arte, più svariati anni di scuola di teatro, ma anche scenografia all’Accademia, giusto per non farsi mancare nulla.
Nel frattempo però, durante il liceo, mi innamorai perdutamente della politica, quella dei movimenti, della partecipazione collettiva, e c’è stato un periodo in cui volevo iscrivermi a sociologia a Trento, come Renato Curcio: quando l’ho comunicato in casa, mia mamma mi guardò dritta negli occhi e mi disse che le arance in carcere non me l’avrebbe portate e che comunque non ero per nulla adatta per la politica di professione.
Quindi son rimasta sul versante artistico, ma nel frattempo gli anni erano passati e nonostante i titoli di studio, le esigenze erano cambiate: avevo molta cultura nel mio bagaglio personale, ma anche voglia di metter su casa, viaggiare, e un pensiero inculcato come un mantra dal babbo Leoni: il posto fisso.
E così è andata, più o meno. Sono passati anni dall’ultima volta che ho desiderato essere o diventare qualcuno o qualcosa.
Non allevo cavalli, non sono una disegnatrice, tantomeno una stilista o una regista, non ho messo su famiglia, ma posso dire che in questi 44 anni ho vissuto al massimo, mettendo il cuore in tutto quello che faccio e continuerò fino a che il cuore non basterà più e servirà altro che non avrò e allora mi chiederò “che ho fatto nella mia vita?” e mi risponderò “ho amato”.
Che sia un uomo, un cavallo, un gatto, il sosia di Jim Morrison, uno scarabocchio che disegno su fogli bianchi, i miei vecchi appunti di storia del cinema, i miei genitori coi quali ho litigato giusto qualche giorno fa sulle elezioni politiche.
A 44 anni la mia paura più grande non è quella di morire, non è più quella di leggere un tema davanti a tutti, non è più quella di non riconoscermi allo specchio, non è più quella di non riuscire a migliorare il mondo, non è più quella di dire “ti amo” a qualcuno che non mi ama.
La mia paura più grande è quella di dimenticare.
Ma i vostri auguri oggi mi hanno aiutata a ricordare chi sono, grazie di cuore a tutti, un compleanno speciale
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