Nel corso della mia vita mi sono formato, come uomo, nel concetto di amore; all’insegna di questo sentimento ho costruito il mio modo di concepire la vita, le relazioni, l’arte, la mia idea della felicità, l’organizzazione del quotidiano e il mio senso di libertà. Osservando come questo sentimento si è evoluto nella cultura sociale odierna, ho potuto constatare che verso l’amore c’è una istintiva ritrosia, una “naturale” diffidenza che fino a una trentina di anni fa non esisteva. Il fatto è che l’Amore è costitutivamente antitetico e per questo assolutamente inconciliabile con il culto dell’individuo che pervade ad ogni livello la cultura moderna.
Abbiamo due grandi rappresentazioni contrastanti, nella letteratura, del concetto di amore: Paolo e Francesca nella Divina Commedia di Dante e la squallida scena d’amore tra la dattilografa e il giovane pustoloso descritta nella terza sezione della Terra Desolata di Eliot.
Paolo e Francesca sono condannati alla dannazione senza fine a causa del loro amore peccaminoso, la loro punizione è quella di essere sferzati per l’eternità “dalla bufera infernal che mai non resta”, un terribile vento tempestoso che senza un attimo di respiro li sbatte in ogni direzione per il resto del tempo, proprio come in vita furono trasportati dalle passioni amorose senza riuscire a mettervi limite. Le due anime, come ci dice Dante, vanno insieme al martirio, abbracciate subiscono la collera di Dio; proprio in questa indivisibilità dei due amanti a me piace vedere il limite del potere divino: Dio non può separare l’amore, anche quando questo mitiga o vanifica l’effetto del suo volere o della sua punizione verso due dannati.
Dante infatti in un verso magistralmente fuggevole, ci dice che i due paiono al vento esser si leggeri, dandoci un primo elemento per introdurre la possibilità che anche nell’inferno ci sia spazio se non per la felicità, almeno per una particolare forma di leggerezza. Quando Dante chiede a Virgilio se può parlare con quelle due anime, la sua giuda gli suggerisce di invocarli nel nome del loro amore per essere sicuro che loro vengano; ancora, durante il dialogo dei due amanti con il poeta, Francesca pronuncia le parole che hanno reso immortale il loro amore “Amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona.” Qui Francesca ci dice che né la morte, né il giudizio di Dio, né la punizione divina possono distruggere il vero amore e per di più che il vero amore è un gioco al quale non si può perdere, più amore si dà e più se ne riceve, l’amore sincero porta amore. Tutto questo crea nel canto una particolarissima atmosfera di dolcezza, un gusto squisitamente colmo di speranza che si palesa in tutto il suo splendore quando Francesca pronuncia le parole “questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante”. Questi due sono nell’inferno a causa del loro amore peccaminoso eppure lei non riesce a pensare ad altro che ad avere accanto il suo amato; fino a quando loro saranno insieme, saranno felici anche nelle sofferenze infernali e nel castigo di Dio. Questo è il potere del vero amore, descritto in modo sublime da Dante per bocca di Francesca; questo è la ricompensa a cui vanno incontro coloro che avranno il coraggio di darsi fino in fondo all’altro nella relazione d’amore; coloro che avranno il coraggio di diventare uno cercandosi l’anima a vicenda saranno ricompensati con la piena libertà, catapultandoli fuori da ogni tipo di bisogno esterno e da ogni potere, finanche quello senza confini di Dio.
Agli antipodi di questo concetto diadico di amore, c’è la rappresentazione del rapporto sessuale che Eliot fa nella terza sezione della Terra Desolata. La scena è narrata da Tiresia, il profeta cieco della classicità greca, e ritrae l’incontro amoroso tra la dattilografa e il giovane uomo presuntuoso della city. La scena si apre con la donna che aspetta l’amante in uno squallido appartamento di Londra, verso l’ora del te, sparecchia la colazione e consuma cibo in scatola, poi si stende su un divano che di notte lei usa come letto, con la sua biancheria pulita sparsa per la casa; la donna è tediata e sembra apatica, incurante di se e del posto in cui vive. Il giovane butterato entra con aria baldanzosa, pensa che lei sia annoiata e stanca, in questo vede il momento propizio per un approccio carnale. Tra loro non c’è alcuna comunicazione, i due non si dicono assolutamente niente per tutto l’incontro. Il giovane cerca di accarezzare la donna che, seppur non desiderosa di carezze non le respinge, immediatamente però queste si fanno più profonde e sessuali; lui prende per un benvenuto l’indifferenza della donna, poiché trasuda supponenza e le sue domande non richiedono risposta. La scena si chiude con lui che esce a tentoni dall’appartamento subito dopo aver consumato l’atto sessuale e lei che si guarda nello specchio a stento ricordando il suo amante partito, mette un disco, si ravviva i capelli e pensa “be’, ora è fatto, e sono contenta che sia finito”.
La funzione che il poeta dà a questa narrazione è quella di rappresentare la metamorfosi che l’amore subisce all’interno della terra desolata, allegoria della società moderna. Non c’è nessuna forma di sentimento in questo incontro, i due personaggi non mostrano alcuna emozione, relazione o legame; tutta la scena si riduce allo squallido espletamento di un bisogno fisiologico in un modo completamente spersonalizzato e a-relazionale. I Due sono talmente disumanizzati da non avere neppure un nome; sono in tutto e per tutto il loro ruolo sociale, lei è a livello esistenziale “la dattilografa” e lui “l’impiegato butterato”. L’assenza del nome per questi due personaggi non è un fatto da sottovalutare e a mio avviso nasconde un profondo senso simbolico. Nella comunità degli esserei umani si cerca di superare la morte tramandando il nome, il defunto viene ricordato dalle persone che lo hanno conosciuto e nei racconti rivivono le azioni che ha compiuto sulla terra, e anche coloro che hanno vissuto dopo di lui potranno sapere chi era e cosa ha fatto. Questa sopravvivenza è tanto più lunga nel tempo, tanto più la persona defunta era speciale e ha lasciato una buona fama di sé. Non a caso Dante, nel canto terzo dell’inferno, così descrive gli ignavi:
«Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
La tipologia del loro peccato, li porta a non meritare di essere ricordati e questa è anche una parte della loro punizione. Similmente, i due protagonisti della scena Eliottiana non meritano di essere tramandati ai posteri per la loro ignavia e la mancanza del nome li condanna a restare racchiusi nelle loro squallide esistenze in vita, per poi scivolare d’improvviso nell’oblio dopo la morte. Eliot ci suggerisce in questa e in altre parti della terra desolata che la società moderna ha costruito una moltitudine infinita di ignavi, e questo è il modello umano che si cerca di fare affermare a livello sociale.
I due amanti sono in Eliot l’archetipo dell’uomo moderno rinchiuso nel suo individualismo, privo di relazioni profonde, che nel perseguire unicamente l’accumulo di denaro finisce per essere definito integralmente dal suo ruolo lavorativo, identificandosi totalmente in esso e perdendo così le sue parti più squisitamente umane. Eliot in questa opera fa una spietata analisi di un mondo reso sterile da una cultura non pensata per perseguire il benessere dell’uomo, ma la salute dei mercati, in cui tutti i valori profondi sono perduti e di conseguenza il fiorire della vita è impossibile; al posto di questa si hanno esistenze misere, condotte da uomini banali e patetici, che intrattengono tra loro relazioni sterili e squallide.
Ma tutto questo perché?
Perché l’Amore non ha una quantità immanente di denaro, o meglio, l’Amore non è e non può essere in nessun modo ridotto a una quantità immanente di denaro. Le persone quando sono pienamente immerse in una relazione amorosa sono felici e soddisfatte, quindi sfuggono alla frustrazione e a quella continua sofferenza che sta alla base del meccanismo consumistico. Parimenti l’innamorato ha come oggetto d’amore la propria amata e quindi non potrà mai dedicare la vita unicamente all’accumulo di denaro, al lavoro o al cosumo, per questo l’amore non è funzionale alla riproduzione dei mercati.
Questo è un dato di fatto che ci dice molto sulle qualità specifiche di questo sentimento umano, e al contempo ci aiuta a capire perché questo non solo non venga capito dall’economia di mercato, ma venga apertamente osteggiato con ogni mezzo nella società occidentale. Già Pasolini ci aveva spiegato, se non fosse cosa di per sé auto evidente, che il Capitalismo è il vero “Totalitarismo perfetto”, nel senso che non può concedere niente che sia al di fuori di sé e delle sue regole; ha invece bisogno di inglobare tutto quello che differisce da sé e digerendolo lo rende affine alla sua logica. Ecco perché l’amore oggi è vissuto dalla quasi totalità della società come un eterno conflitto tra il darsi all’altro e l’affermazione di sé e della propria individualità all’interno della coppia. La relazione d’amore smette di essere il luogo in cui perdendosi reciprocamente nell’altro si trova il proprio Io profondo, in cui si può sperimentare la vera felicità, quella in cui prendendosi per mano si può trovare la vera libertà e volare come nel quadro di Chagall.
Dedico questo articolo al mio amico Giorgio, per ringraziarlo di avermi insegnato che vale sempre la pena di lottare per l’amore.
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