Quando guardo immagini di disastri qualunque siano in televisione mi viene automatico pensare: “E dopo come faranno?” Quando vedi macerie, case, scuole e fabbriche distrutte non ho la minima idea di come si potrebbe vivere in una condizione di devastazione dovuta a grandi eventi. Cosa fanno le persone, come possono riprendere speranza nel futuro, quando potranno rientrare nelle proprie case, riprendersi i propri spazi il proprio lavoro? Non vi è mai una risposta. Mi rendo conto che la mia è una considerazione a tratti infantile, sono consapevole che da ogni dramma rinasce sempre qualcosa ma non posso non pensare alla disperazione del momento e alla difficoltà del dopo. Il rinascere dalle macerie è possibile ma qual è il costo sociale ed economico?
Quando in questi giorni vedo, non con poca difficoltà, qualche immagine della guerra in Ucraina sono assalito da questi pensieri, il dopo ricostruzione ha con sé qualcosa di ignoto, imprevisto non certo soprattutto per le persone più fragili. Diceva Sartre: “Quando i ricchi fanno la guerra, sono i poveri che muoiono” a me pare che muoia tanto oltre ai poveri (come se non fosse già abbastanza), muoiono città, muoiono civiltà, culture, muoiono relazioni umane, lavorative. Muore con la guerra l’idea che non possa esistere altro modo se non con le armi la possibilità di risolvere controversie tra le nazioni. Ma direi controversie tra esseri umani, qual è l’impatto educativo di produrre cultura di guerra nelle generazioni future? Si può veramente credere che la guerra possa essere solo un’azione estranea del momento priva di ricadute politiche, culturali e sociali? Non penso proprio, la guerra si porta dietro una narrazione di cultura predominante, l’idea della violenza necessaria e giustificata. Educare i propri figli/e al rispetto dell’altro/a, abituarli all’ascolto, all’empatia, alla cooperazione al riconoscimento e alla valorizzazione delle posizioni altrui sono strumenti che paiono inutili, il più forte sopravvive, se vedi la minaccia agisci non chiederti.
Come dicevano i romani “Si vis pacem, para bellum” se vuoi la pace prepara la guerra, questo la nuova narrazione utile di questi tempi. E allora è necessario ricorrere a chi ha fatto cosa e chi è stato il primo, perché se si giustificano i mezzi si apre anche il dibattito su chi ha iniziato e dove tutto ha avuto inizio. Ma manca sempre il dopo e il durante in queste discussioni, ed abbiamo un’altra morta grazie alla guerra la verità, questa muore perché distorta e tirata da una parte o dall’altra, muore perché debole, muore perché inutile davanti alla violenta predominanza della propria verità.
La parola pace sparisce dalla discussione o ancor peggio si distorce nel significato e nella volontà, ciò nonostante vi sia una bella fetta di persone convinte che la corsa all’armarsi sia una grande stupidaggine che produce, come stiamo vedendo, un’escalation di tensione e minacce che rischiano di portarci verso una via di non ritorno.
La cosa stupefacente è che milioni di persone, a quanto detto dai sondaggi, la maggioranza dei cittadini italiani che nonostante il continuo martellamento mediatico che porta alla santificazione di Zelensky, nonostante la retorica incessante e storicamente inaccettabile che paragona la resistenza ucraina la resistenza dei partigiani italiani al nazi-fascismo. Dimenticandosi che il principio di fondo della resistenza italiana era quello di combattere per la pace non per la supremazia.
Adesso abbiamo uno scontro tra due stati, tra eserciti di due stati nel quale uno sicuramente è l’invasore ed uno probabilmente resiste per conto terzi, dove aleggia che il problema non è il raggiungimento di una pace ma l’eliminazione del nemico di turno. Esiste un popolo che ancora pensa che la pace possa avere un valore ed un significato universale, esiste un popolo che non ha una rappresentanza politica, che nessuno pare abbia interesse a rappresentare dal momento poco si muove sotto la corte di Draghi.
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