Batti e ribatti ci siamo. Che Micheal Stipe fosse uno di quei frontman a cui non serve smanacciare per essere riconosciuto come elemento chiave della propria band lo sapevamo. Ma allo stesso modo, c’era da aspettarsi che l’artista che per anni ha impiegato il suo immaginario poetico e performativo nella musica dei R.E.M., sarebbe brillantemente sopravvissuto al loro scioglimento. Eppure il percorso individuale del cantante e fotografo 62enne non comincia nel 2011, l’anno in cui lui, Peter Buke e Mike Mills decisero di concludere lo storico sodalizio; né tantomeno lo scorso 7 gennaio, quando su Zoom Stipe ha parlato dell’ esposizione delle proprie opere prevista a Milano alla fine del 2023. L’aurea che lo circonda, quella di poeta capace di maneggiare tanto le parole quanto le immagini, di incarnazione vivente di un rinascimento post wave made in usa, Micheal Stipe l’ha coltivata da sempre. Fa parte dell’approccio che dal 1980, già con quei Twisted Kittes che presto si chiameranno R.E.M., scelse d’imprimere nel suo modo di interpretare la musica. R.E.M., Screaming Trees, Miracle Legion, The Replacement: prima ancora del termine “Indie” (che ancora oggi si dimostra una delle parole più ondivaghe degli ultimi cinquant’anni), la musica di queste band venne definita College Rock, perché suonata da universitari e programmata nelle radio delle università d’America. Niente manifesto, niente movimento, nessun guru e tantomeno un manager brufoloso, dall’occhio più lungo dell’orecchio, che costruisse a tavolino una band icona di questo suono per tirarne la volata. Così, quello che Micheal Stipe e gli altri musicisti di quegli anni cercarono di fare, fu con ogni probabilità più estremo di ogni sfrontatezza dei loro predecessori: rendere il punk un linguaggio formale, decostruirlo e usarlo per veicolare pop art. Per farlo, ogni mezzo valeva: video art, cover design, trovate performative, testi intimisti, ballate rock e accordi in maggiore sporchi di distorsione. In quell’acqua Micheal Stipe ci ha sguazzato come un magnifico pesce, sempre attento a meritarsi il ruolo di tedoforo del post…tutto. Un’aurea che assomiglia a quella dell’amica Patti Smith, che prima di lui ha trovato una perfetta quadra tra l’importanza della propria musica e l’essenza di icona vivente. Con Patti Smith, Micheal Stipe condivide anche la frequentazione dell’arte fotografica, che gli è valsa il profondo apprezzamento della critica newyorchese nel caso del suo Volume 1 (1980-2015), una raccolta di scatti on the road lunga 37 anni. Ma torniamo allo scorso venerdì, quel 7 gennaio del neonato 2022 e alla “photochat” su Zoom con Martin Parr, produttivissimo e (cautelatamente) discusso fotografo inglese che accende le conversazioni di tutti quelli che, in fondo, la pensano allo stesso modo . Una chiacchierata in cui Stipe ha raccontato ai fan del suo rapporto con l’arte, con Patti Smith e Andy Wharol e inoltre ha presentato il libro fotografico pubblicato la scorsa primavera dall’editore bolognese Damiani.
“Ho tre progetti in corso: un nuovo libro fotografico, una mostra all’ICA di Milano delle mie opere tra fine 2022 e inizio 2023 e sto lavorando al mio album” ci dice Stipe. “Il mio passato nei R.E.M. è come una grossa montagna da scalare. Voglio creare qualcosa che non metta in imbarazzo e sia allo stesso livello dei R.E.M.”.
Gli ultimi capolavori di Stipe
Su Spotify e altre piattaforme Micheal Stipe ha pubblicato nel 2019 “Your capricious soul”, “Drive to the ocean” e “No time for love like now” (recentemente tradotta e riletta da Zucchero per il suo album di cover). Pezzi quadrati, dove nel bel contesto sonoro la voce del cantante emerge tanto garbata quanto incisiva, perfettamente in linea con lo stile al quale ci ha abituati. Micheal Stipe con il garbo che lo contraddistingue riesce ancora a attirare sia l’affetto del pubblico che l’attenzione della critica e ogni suo progetto futuro crea grande aspettativa. Vegano, democratico, schierato per la lotta contro la diffusione delle armi da fuoco: potrebbe rappresentare l’obbiettivo perfetto per certe polemiche, tanto comprensibili quanto facilone. Ebbene, sarebbero del tutto ingiuste e addirittura ottuse. Quello che Stipe rappresenta non è cosa che debba riguardare lo sguardo critico e se la sua arte si confà alle mobili intenzioni di un tipo di politica poco importa, persino nel caso che questo provochi compiacimento all’uomo Micheal Stipe. Ciò che conta è che Stipe è prosecutore di un approccio artistico di fine novecento che continua ad aver valore nel nuovo millennio. Un approccio totalizzante, appassionato, circostanziato che dall’interesse attorno alla sua musica e alla sue foto trae una spinta di responsabilità. Lo sforzo non comune di ricercare la necessarietà.
Lascia un commento