Un tempo c’erano imprenditori come Adriano Olivetti, che con la sua visionaria idea di impresa, cercava di coniugare il liberalismo e la giustizia sociale, Carlo de Benedetti, sempre attento a corrispondere ai suoi collaboratori la giusta ricompensa per il loro lavoro e Cesare Romiti, che al tempo della lotta di classe nella Fiat, appariva come un “reazionario d’antologia” e che invece, nelle sue ultime interviste, potrebbe tranquillamente scavalcare da sinistra uno qualsiasi dei segretari che negli anni hanno guidato il PD. Romiti ha detto, più di una volta, che per lui è inconcepibile che un manager guadagni 250 o 300 volte più degli operai che dirige; ai miei tempi, diceva Romiti, io guadagnavo 20-30 volte di più dei miei dipendenti e già quello mi sembrava tanto, la situazione di oggi è immorale, illogica e intollerabile. Poi sono arrivati gli imprenditori di oggi, come la Santanchè, Briatore e tutto il portato del rampantismo degli anni ’90, segnando uno stacco netto e ben visibile dalla vecchia guardia dei capitani d’impresa, dal punto di vista etico, culturale e sociale.
Ogni epoca – si vede – ha gli imprenditori che merita e che meglio riflettono l’assetto e i valori che si vogliono dare alla società.
E’ in netto calo la percentuale degli imprenditori che oggi costruisce un’impresa basata sulle idee innovative in termini di processi e di prodotti, sull’attenzione al contesto sociale in cui si innesta l’azienda e sulla sua reale sostenibilità sociale ed ecologica. Oggi si fa sempre di più impresa comprimendo i costi che derivano dalla sicurezza sul lavoro e dal salario, le difficoltà di mercato si affrontano non con idee nuove ma con due giri di torchio sulla testa dei lavoratori, sempre in bilico sul loro punto di rottura. Infatti moltissimi sono stati gli imprenditori a battersi il petto e piagnucolare in tv perché il reddito di cittadinanza era un competitor irresistibile ai loro salari: se 600 euro al mese bastano per mettere in crisi il reperimento della manodopera in alcuni settori, mi pare che il problema non sia il reddito di cittadinanza, ma questi “signori” si guardano bene dal dirlo. Tutto sommato, guardando a questo tipo di imprenditoria, si può ancora sorridere (di un riso amaro, beninteso), perché gli altri sedicenti imprenditori, assomigliano molto più a dei Pirati che a Olivetti. Sono quella quota crescente di sinistri personaggi che acquisiscono le imprese – avvolte in crisi, altre volte sane, poco importa – per poi spolparle e lasciare solo i debiti verso i fornitori e i dipendenti che non verranno mai risarciti, mentre i denari vanno a finire sotto forma di stipendi da capogiro e benefit di ogni sorta per i membri dei CDA. Questa branca “dell’imprenditoria bucaniera” è ovviamente legata alla finanza e del processo di finanziarizzazione dell’economia si avvale e in questa prospera, aumentando sempre di più profitti e incidenza nella tipologie di azione imprenditoriale che opera nel nostro paese. Infine c’è l’imprenditoria sana, fatta sopratutto di giovani, che affronta le sfide del domani con idee che danno vita ad aziende nuove che fanno profitto redistribuendo una parte ai lavoratori e che – invece che depauperare il territorio – aiutano con la loro attività la riqualificazione sociale e ecologica del luogo che gli ospita. Il nostro paese è di fronte ad un bivio, se le prime due tipologie di imprenditoria continueranno a prosperare indisturbate, il nostro paese è destinato al declino e presumibilmente anche al conflitto sociale. Se invece i pirati e gli sfruttatori saranno prima visti e poi trattati come tali, lasciando campo libero alla vera imprenditoria, il nostro paese ha l’inventiva, la coltura e le risorse per poter spiccare il volo e contemporaneamente costruire un modello sociale più giusto e sostenibile.
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