Il mio amico Moussa, rifugiato politico senegalese, parlando una sera mi ha detto: “io sono diventato nero a 23 anni, la notte in cui sono sbarcato a Lampedusa. Ma se io sono diventato nero, tu quando sei diventato bianco?” Conoscendo Moussa, ho capito subito che la domanda era provocatoria, so bene che lui ha un cervello agile e profondo e che è incline a spiazzare le persone per cambiare la loro prospettiva e il punto di vista. Ero sicuro che quella frase fosse il trampolino di lancio per una conversazione che mi avrebbe profondamente colpito. “Che intendi dire Moussa?” Ho risposto sollevando un sopracciglio con uno sguardo interrogatorio e un mezzo sorriso. “Si”, mi ha risposto lui, “l’essere nero per me era una cosa normale in Senegal, non avevo mai riflettuto sul fatto di avere la pelle nera, non aveva nessun significato in Senegal, era una cosa normale”. “Sono diventato nero”, continua Moussa, “la notte in cui sono sbarcato tra i bianchi, qua essere nero ha valore spesso negativo, raramente positivo”. “Diventando nero in Italia ho acquisito un posto nella società italiana ben determinato e una certa rappresentazione, una specie di identità.” “Ma tu”- mi ha chiesto- ”quando sei diventato bianco? quando hai acquisito il bagaglio di rappresentazioni mentali, stigmatizzazioni, pregiudizi e griglie interpretative della realtà dell’essere bianco?”. A questa domanda non ho saputo rispondere, ma mi ha innescato una lunga serie riflessioni.
Alla base di questa impostazione culturale c’è il fatto che, se l’altro è “nero”, io sono “normale” e proprio in questo non detto che soggiace alla definizione dell’altro e che non venendo esplicitato non passa al vaglio critico della nostra coscienza, si annida la stigmatizzazione e la discriminazione involontaria anche di coloro che “non sono razzisti”. Infatti, nella distinzione normale/diverso, diverso scivola facilmente in sbagliato e poi in pericoloso. Questo meccanismo inconsapevole genera un razzismo inconsapevole e non desiderato, anche nelle menti di coloro che hanno un approccio progressista. E’ come un tarlo che lavora in profondità e che nel tempo sposta di molto le posizioni e i modi di vedere di coloro che ne subiscono l’effetto. Questo meccanismo spiega molte forme di stigmatizzazione e discriminazione, non solo il razzismo; lo si può applicare agli orientamenti sessuali, di genere, politici e religiosi. Nello schema di genere, per esempio, si tende a polarizzare la distinzione vittima/carnefice (dove la donna è la vittima di un’oppressione operata dagli uomini) e questa distinzione porta alla costruzione di un rapporto conflittuale tra i due generi. Beninteso, non si intende negare né sminuire la situazione non più tollerabile che vede la donna, incredibilmente, ancora discriminata. Ma una cosa è descrivere la realtà della discriminazione femminile e farsene carico, cosa molto diversa è invece strutturare il rapporto tra generi partendo da una rappresentazione conflittuale dove si generalizza ad ogni livello relazionale uno schema oppositivo, questo innesca nelle persone una visione mentale e immaginifica dell’opposto di genere fortemente stigmatizzata e incentrata sulla diade noi/nemico, dalla quale difficilmente si esce se non con una guerra. Qui, come nel caso delle persone di colore, la descrizione oggettiva delle cose è un conto (le persone hanno davvero un colore della pelle diverso e le donne realmente subiscono ingiustizie quotidiane nella società di oggi), altro è l’immagine mentale e il significato che si dà al mero essere “nero”, “uomo” o “omosessuale”. La carica discriminatoria e stigmatizzante risiede nel modo di concepire il diverso, “l’altro da noi” e nelle caratteristiche automatiche che si riversano su questo altro, operate da un giudizio quasi sempre ingiusto per chi lo riceve ma molto comodo per chi lo emette, in quanto questo giudizio è autoassolutorio e pone “noi” nel giusto, nel normale, nel coretto e loro nello sbagliato, nell’anormale e nel non corretto.
Per tutte queste ragioni la frase di Giorgia Meloni: “sono una donna, sono una madre, sono cristiana”, mi terrorizza, perché l’orgoglio lapidario con cui viene urlata questa frase segna il confine tra cosa è giusto e cosa non lo è per la futura premier italiana. Sembra voler dire che chi non è donna, madre e cristiano, ha qualcosa che non va. Non è un attacco diretto alla diversità, che genererebbe immediatamente un’alzata di scudi sia mentali che di opposizione sociale, è un pensiero che rischia di passare perché non pienamente esplicitato, ma che segna un cambio di passo simbolico e immaginifico di portata epocale, con conseguenze terribili per il progresso dei diritti delle persone (mi rifiuto di distinguere il mondo in “minoranze e maggioranze”, in quanto anche questa è stigmatizzazione simbolica). Non so quale sia il giudizio storico di Meloni sul Fascismo e sul ventennio e francamente mi par anche cosa di nessun interesse, che può essere relegata nell’alveo dei pareri personali. Molto più interessante è invece capire quanto ci sia ancora in questa nuova destra di atteggiamento Fascista, che non ha niente a che vedere con le forme storiche di manifestazione del fascismo, invece ha molto a che fare con l’orizzonte dei rapporti sociali e politici che il Fascismo ha costruito. Mi riferisco alla sistematica oppressione del diverso in ogni sua forma, alla scientifica intolleranza per tutto quello che non è conforme, all’uso esclusivo della violenza come metodo per affermare le proprie idee e le proprie posizioni e per stroncare quelle diverse dalle proprie, l’isolamento, la stigmatizzazione e poi la persecuzione di categorie di sgraditi al regime. Questo è il vero pericolo che si annida nella nuova destra, non il ritorno delle squadracce in Fez e Camicia nera, ma che ritorni tutto il portato di odio, stigmatizzazione, intolleranza e violenza che i fascismi hanno elargito a piene mani in Europa, magari travestito con abiti più moderni e con forme più contemporanee, ma tendenzialmente invariato nella sostanza
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