Kant diceva che non c’è bisogno di esplicitare la differenza tra il bene e il male, perché l’essere umano lo percepisce naturalmente; oggi mi sento di dire che non è più così. Da un po’ di tempo a questa parte, sto ponendo attenzione a come vengono riportate le notizie di cronaca e alle caratteristiche che hanno le storie che vengono raccontate. Partiamo dalle morti bianche, queste sono all’ordine del giorno nel nostro paese, ma un solo caso è emerso dal silenzio, quello di Luana che è tragicamente deceduta dentro un telaio, doveroso il racconto del fatto, ma nello stesso periodo è morto un altro operaio in modo similare, ma di lui non sappiamo nemmeno il nome. 150 casi di femminicidio in un anno, ma i riflettori si sono accesi solo per poche vittime, perché? Le altre donne avevano meno importanza? Del caso di Giulia, giustamente e doverosamente, ne abbiamo sentito parlare a lungo; ma perché le storie, le vite e le morti delle altre 149 passano sotto silenzio?
Si potrebbe continuare con gli infanticidi – per i quali siamo ancora fermi a Cogne o poco più – dei 39 uomini uccisi in famiglia nel 2021 (dati ISTAT), passati totalmente sotto silenzio nei media. Pescando sempre dai dati ISTAT, mi parrebbe giornalisticamente rilevante il fatto che siano stati 303 omicidi nel 2021, 184 uomini morti e 119 donne, ma a nessuno sembra interessare. Ho la spiacevole sensazione che per alcuni media il giornalismo non sia più quel mestiere in cui si raccontano i fatti, si narra la realtà degli avvenimenti il più fedelmente possibile e il più asetticamente possibile. Ho la sensazione che una notizia, per essere riportata debba avere un “di più di spettacolo”, di sensazionale; la cronaca si occupa solo di quei fatti che hanno degli elementi vari di spendibilità, si mobilità solo per storie che – in un modo o nell’altro – “funzionano”, sono fruibili in termini di spettacolo, di emotività, di impersonificazione. Ecco che il centro della cronaca si sposta dai fatti, dalla narrazione degli avvenimenti, all’intrattenimento dello spettatore. Il giornalista smette di essere gli occhi e le orecchie del cittadino e veste i panni del presentatore televisivo o dell’autore di programmi di intrattenimento, cucendo format di notizie che funzionano nello show dei media e tralasciando tutto quello che non si confà al canovaccio della trasmissione: ovvero la realtà dei fatti, quello che avviene davvero nel paese e – facendo una piccola astrazione – credo che questo modus operandi per la cronaca, sia facilmente adattabile a tutti gli ambiti di interesse del giornalismo. Credo che all’origine di questo fenomeno ci sia la nota tendenza dell’economia di mercato a trasformare tutto in denaro, a non concepire niente al di fuori di se stessa e – in ultima analisi – a non concepire niente che non sia una quantità immanente di denaro. Ogni cosa quindi deve essere trasformata in merce, che genera denaro e niente nel capitalismo sfugge a questa regola, nemmeno il giornalismo, che infatti si tramuta nella merce “intrattenimento televisivo”. Il costo di questa operazione è discriminare le vittime, non mettere chi è vittima di violenza sullo stesso piano, non dare a tutte le vittime uguale dignità e lo stesso diritto di essere “raccontate” per essere compiante, facendo ad alcune di loro una seconda, intollerabile, violenza post mortem.
Questo meccanismo ha tutta una serie di conseguenze sulle persone che sono soggette ad una comunicazione di questo tipo: la prima e più visibile, è la disinformazione, poi c’è l’abitudine mentale all’escaletion, per cui, per mantenere viva l’attenzione, le persone hanno bisogno di cose sempre più sensazionali e costruite. Una volta che si è abituati a prestare attenzione solo allo “show”, una realtà mano effervescente ma reale, ci apparirà noiosa, perché cambiano le modalità e le finalità per cui ci si informa. Il vecchio giornalismo non aveva niente di divertente e le persone non si informavano per “divertirsi” ma per conoscere, per capire e per sapere; questo oggi non è più vero, perché il modo in cui si fruisce il mezzo, modifica nell’uditorio le finalità per cui si ascolta o si legge. Infine cambia anche il modo di sentire o non sentire l’umana pietà; siamo sempre più incapaci di provare empatia con l’altro – questo per una generale tendenza culturale volta a evitarlo – ma a questa riforma antropologica dell’uomo concorre anche, in parte, quella categorizzazione delle vittime di cui si parla sopra. Il sistema dell’informazione sembra voler dire, che si deve provare empatia solo per le vittime vincenti, quelle che hanno una storia tragica che “funziona”, che “è divertente”, per tutti gli altri sfigati che muoiono in modo banale, insulso, senza stile, non c’è che la fossa comune dell’oblio, perché non meritano la nostra attenzione e il nostro tempo. Probabilmente se Kant scrivesse oggi, direbbe che c’è molto bisogno di esplicitare la differenza tra il bene e il male, perché l’uomo non è più in grado di distinguerlo naturalmente, avendo barattato questa capacità per una somma immanente di denaro come centro della sua vita.
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