Si è detto, all’inizio della pandemia, che questa avrebbe modificato radicalmente, antropologicamente, l’uomo. Si è ipotizzato, in un delirio di ottimismo, che le restrizioni della vita sociale e la conseguente pausa forzata dal carnevale orgiastico di godimento e consumo, avrebbero fatto riscoprire all’essere umano le cose realmente essenziali della vita. Quindi cosa è cambiato nell’orizzonte di senso dell’uomo con la pandemia? Assolutamente niente. Appena tolto il freno delle restrizioni, tutti si sono gettati con ancora più slancio nelle vecchie dipendenze e nelle consuete abitudini, acriticamente, senza darsi nemmeno il tempo di pensare, figuriamoci poi di capire. Evidentemente la mutazione culturale operata sulle nostre società (intendo quelle occidentali), è così profonda e consolidata, da non lasciare spazio a dubbi di nessun genere. Cerchiamo allora di dare uno sguardo a cosa è cambiato e a come lo ha fatto, dal dopoguerra ad oggi.
Nessun piano per distruggere il mondo
Sgombriamo subito il campo da un fraintendimento di base, tutto il pensiero che andrò ad esporre, non deriva dalla convinzione che ci sia un piano o un disegno di chi sa quale gruppo elitario o agenzia governativa, per dominare gli esseri umani o per accrescere il potere di chi che sia. C’è solamente il denaro che segue le sue regole e che impronta di se tutto il resto, questo ce lo diceva già Marx nel Capitale; e ci sono, come effetto secondario derivato dal primo, le tecno-scienze che operano per dispiegare a pieno la potenza in atto del denaro. Più semplice di così non potrebbe essere. Per eccesso di chiarezza diciamo che tutte le teorie del complotto sono delle colossali baggianate ad uso di semianalfabeti funzionali, nel migliore dei casi.
Il cambiamento del secondo dopoguerra
Nella cultura impiantata sopra società di stampo comunitario e mutualistico nel secondo dopoguerra c’è fondamentalmente: individualismo, narcisismo (e godimento narcisistico nel consumo) e nichilismo. In questo articolo prenderemo in esame il primo, lasciando gli altri a futuri scritti. L’individualismo è l’elemento più conosciuto e visibile della cultura moderna. E’ anche quello più ostentato, il primo messo in campo e meno nascosto tra le pieghe del non detto, in quanto l’elemento più socialmente accettabile tra i tre, anche se, come vedremo, ha dei risvolti dirompenti rispetto ad una coltura ospitante di tipo comunitario. La società che riceve questa nuova cultura, che ha ben poco di culturale e di normativo, è una società in cui l’altro conta, è fondamentale e ci si cura dell’altro perché senza l’altro non si può vivere. Non c’è ancora il mercato che provvede, se si è in grado di pagare, a tutti i bisogni della persona. Il contadino sa benissimo che senza il suo vicino non potrà arare il campo, o raccogliere il grano, l’uva o le olive. Le macchine non esistono ancora o comunque quasi nessuno se le può permettere, il contadino ha la vacca che aggioga per arare il campo insieme al vicino, uno possiede la destra e uno la sinistra e così possono arare alternativamente il campo dell’uno e poi dell’altro, insieme, perché solo così possono farcela. Queste sono società che seguono regole non scritte, ancestrali, di mutuo soccorso. Se un contadino è ammalato nel tempo della raccolta, tutti gli altri contadini della sua comunità faranno il lavoro per lui, e il raccolto non andrà perso per nessuno. Queste pratiche non derivano necessariamente dall’altruismo, sono anche di stampo pragmatico. Ogni persona sa che può ammalarsi e sa che senza il suo lavoro non potrebbe sopravvivere, se io raccolgo il grano del vicino quando lui non può farlo, non solo gli salvo la vita, ma mi garantisco che lui farà altrettanto per me in futuro; quindi, di fondo, salvo anche me stesso.
Aiutarsi per proteggere se stessi
In Sardegna, vige ancora oggi la pratica della “sa paradura”, se un pastore perde il gregge per una qualsiasi ragione (furto, calamità naturale o malattia degli animali) tutti gli altri pastori donano una pecora gravida alla persona che è rimasta senza mezzi di sussistenza, consentendogli così di rimettere in piedi la propria attività. Questo modo di pensare e di vivere i rapporti sociali, deriva dal contatto con la natura, che è – o dovrebbe essere se ancora si possedesse la saggezza – la misura di tutte le cose. Gli antichi greci avevano molto chiaro che la natura era l’orizzonte immutabile su cui si svolgevano le loro vite, e sapevano bene che modificarla, avrebbe significato rendere impossibile la vita. La tradizione giudaico cristiana, con il concetto del creato, ha spostato questo rapporto con la natura. Se la natura è creata da Dio per l’uomo e ad esso donata, l’uomo può farne ciò che vuole, come dice Galimberti, può disporre a suo piacimento della natura, come si fa con un qualsiasi altro dono.
L’onnipotenza della cultura moderna
La cultura moderna vive all’interno di un delirio di onnipotenza. L’uomo si vive come onnipotente e bastante a se stesso, e allo stesso modo impronta il rapporto con la natura. Questa infatti e relegata ai margini delle nostre città, concepite e costruite in modo da allontanare il più possibile anche solo il ricordo della natura. Si può letteralmente nascere, crescere e morire senza avere alcun rapporto con la natura, o al massimo relegarlo a sporadici “viaggi avventurosi” dove la natura spacciata per selvaggia e preconfezionata e controllata dai tour operetor. Il risultato è un’immagine di se senza limiti e confini imposti dall’ambiente e dal contesto sociale. Ma un uomo senza limiti è un uomo che non ha una identità normativa, è un uomo che nell’aspirazione ad essere tutto, riesce solo a non essere niente. Similmente infatti, anche le relazioni con gli altri esseri umani sono inutili se non irritanti. Aristotele diceva che “Chi è incapace di vivere in società, o non ne ha bisogno perché è sufficiente a se stesso, deve essere o una bestia o un Dio.” Gli altri non ci servono, il mercato provvede a noi, al massimo le persone che condividono con noi gli spazi, necessariamente ristretti, delle città sono un elemento di fastidio, non certamente una risorsa. Sono quegli che con i loro diritti e con i loro bisogni limitano i miei, sono quegli che mi intasano la strada quando io devo andare a lavoro, sono quegli che sono in fila di fronte a me quando io devo usufruire di un servizio, sono quegli che con la loro insopportabile libertà limitano la mia, l’unica che davvero conti. Il problema di fondo di tutto questo “io” genera infelicità, chi basta a se stesso è da solo; aveva ragione Dumitru Novac dicendo che “l’ individualismo non è una conquista bensì una cella di lusso dove soffrire in silenzio”.
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